Sono stata una bambina “particolare”…
Spesso vivevo in un mondo solo mio, dove non permettevo a nessuno di entrare, amavo andarmene in giro da sola. Allora erano di sicuro altri tempi… Non che non mi “sorvegliassero”, ma intorno alla casa vi era natura… Qualche volta ho allarmato i miei genitori, perché uscivo e sparivo per ore. Che fosse nel bosco od oltre il cancello, raramente in compagnia di qualcuno, a parte nonno. Un pomeriggio intero lo passai ad aiutare una delle insegnanti di arte a fare composizioni in carta crespa che sarebbero dovute servire ai suoi allievi. Quando avevo varcato la porta del suo studio, lei mi chiese: “Hai avvisato mamma che sei qui?” e io risposi di sì. Non era vero. Ero uscita dicendo che sarei andata a correre nel prato e poi mi era venuto in mente di andare da lei. Non amavo nemmeno allora che mi si dicesse dove potevo o non potevo andare. Forse la libertà era un concetto che mi apparteneva da altre vite e, anche incarnata in una bambina di 5 anni, non ammettevo altro se non muovermi liberamente nel tempo e nello spazio. A volte, siccome mi lanciavo a tutta velocità nei prati o salivo sugli alberi e poi pensavo di avere le ali, mi sbucciavo o prendevo forti colpi a polsi e caviglie.
Nonna era una “aggiusta ossa”! Diceva che era Dio che le aveva dato il dono, questa capacità e che doveva metterla al servizio degli altri. Fuori dal suo cancello, la sera, c’era sempre la coda. Accoglieva le persone e le “sistemava”. Non voleva nulla in cambio. Mai. Anzi, preparava loro anche il caffè o regalava qualcosa dalla sua dispensa. Era brava in cucina.
Quando tornavo a casa dopo le mie esplorazioni più pericolose, mostravo a mamma il polso, o la gamba zoppicante e lei capiva. Mi portava da nonna. Mi ricordo benissimo la sua cucina enorme. Una stanza immensa con la stufa a legna e il camino al centro di una parete. Il soffitto altissimo a cassettoni e dei dipinti sul muro. Due enormi finestre a quadri dalle quali si vedeva il giardino all’italiana. Nonna non mi diceva nulla, mi sorrideva e mi faceva segno con lo sguardo di sedermi. La vedevo tornare con un catino azzurro, usava sempre quello, una saponetta e una benda color crema. Si sedeva di fronte a me, mi bagnava il polso o la caviglia, passava la saponetta e poi osservavo le sue dita muoversi lente sulla mia mano fino a metà braccio, o dal piede fin sotto al ginocchio. Sentivo che mi stava come spostando nervi e ossa. A volte tutto sembrava una carezza, a volte mi faceva male, ma non dicevo nulla. Nessuna delle due parlava. Alzavo lo sguardo e osservavo i suoi capelli rigati di bianco perfettamente raccolti in uno chignon che sembrava uscito da un salone di bellezza, non si truccava mai e la sua pelle era luminosa. Aveva gli occhi trasparenti. Indossava gli orecchini con la chiusura a monachella e un pendente al collo. Non se li toglieva mai. Spesso era vestita di nero, quasi sempre direi, anche se non era a lutto.
Ogni volta, quando finiva, mi precisava che avrei dovuto tenere la benda per una settimana e che me l’avrebbe tolta lei. Io ogni volta dicevo di sì e qualche giorno dopo, seduta a gambe incrociate, sul letto, me la sfilavo da sola. Giravo il polso lentamente, ci passavo i polpastrelli e capivo che tutto era tornato al suo posto.
Anche quando iniziai ad andare a scuola, le mie scorribande in solitaria e nei prati non finirono. Qualche volta andavo a scuola col polso fasciato. Ero molto magra e alta, qualcuno diceva che ero un ragno. Sono sempre stata la più alta della classe, fino all’adolescenza. Poi la crescita si è bloccata… Qualche problemino di salute…
Per cinque anni, alla scuola elementare, quando si facevano le foto, io ero sempre quella messa in ultima fila, perché altrimenti coprivo gli altri. I miei compagni stavano addirittura in piedi davanti, o sulle sedie. Io dovevo stare dietro e a lato. Il ragno aveva capelli lunghi. E gli occhi dai colori diversi. Si vede normalmente se mi guardi, ma nelle giornate di vento la differenza è davvero molto evidente. Ricordo gli sguardi fissi. Avviene anche adesso che sono adulta. La scena è sempre la stessa: lo sguardo che passa veloce e poi torna indietro a fissarmi. Come se chi mi ha guardata restasse lì incredulo.
“Ma… i tuoi occhi! Sono diversi!” Si chiama eterocromia.
Nessuno aveva gli occhi come i miei. A oggi non conosco nessuno di persona. A parte David Bowie… Vabbè!
Un giorno, a scuola, durante la pausa in giardino, mi ero arrampicata su un pino a recuperare una pallina e nessuno aveva capito come avessi fatto in pochi secondi a salire e scendere. Non stavo giocando, ero sotto un albero tranquilla e da sola, quando mi ero accorta che il gruppo di maschi, quelli che non mi lasciavano mai giocare con loro, aveva perso la pallina su un ramo. Era lì incastrata e loro impossibilitati a recuperarla. Non ero di sicuro la persona più estroversa del mondo, ma, vedendoli in difficoltà, pensai di intervenire e mi arrampicai.
Uno di questi, strappandomi di mano la pallina, pronunciò parole affilate: “La strega selvaggia con gli occhi dai colori diversi!”. I bambini sanno essere tanto adorabili quanto stronzi!
Queste parole mi colpirono come una lama nel cuore. Da allora iniziarono a chiamarmi “la strega”. Per un lungo periodo non dissi nulla, poi, un giorno, con la stessa mano che vedeva il suo polso fasciato, gli tirai un pugno in faccia. I suoi genitori vennero a parlare a casa. Così scoprimmo che erano loro a pensare che nonna fosse una strega e io una selvaggia.
I bambini forse non sono stronzi, sono solo figli di stronzi.
Crescendo non ho mai smesso di essere selvaggia e sono diventata sempre più strega. Col tempo ho smesso di andare da nonna a farmi sistemare le ossa, perché un giorno ho scoperto di saperlo fare da sola. Qualcuno mi ha spiegato, molti anni dopo, che questi “poteri” si tramandano. Saltano una generazione e la femmina li porta con sé dalla nascita. Non mi interessa avere certezze, spiegazioni o dati, quello che so è che è stato difficile ammettere tutto questo e non odiare la diversità. Anche quella del colore dei miei occhi. Per tanto tempo mi faceva effetto specchiarmi, anche se vedere quelli di David Bowie o quelli degli husky mi faceva sentire meno sola.
Oggi credo che se mi chiedessero cosa più mi piace dei miei elementi fisici, risponderei gli occhi. Ora so di essere un gatto. La mia unicità così sbattuta in faccia al primo sguardo. Quando c’è il vento quello azzurro diviene trasparente e quello verde diventa un misto di pagliuzze gialle con tracce nocciola. Li amo, così diversi e particolari.
La strega selvaggia con gli occhi dai colori diversi ha fatto pace con tutte quelle sue paure e semplicemente ha accettato quello che la vita le ha donato. Anzi, mi sono permessa di frequentare più streghe e stregoni possibili per sentirmi semplicemente a mio agio, a casa, come quando da bambina nonna mi accarezzava l’anima con un semplice sguardo e le sue dita calde si muovevano lente sui miei arti. Perché quando poi ha lasciato il suo corpo e ho continuato a sistemarmi le ossa da sola, ho anche capito che lei già sapeva…
In 🎧: LAKOTA (sioux) – “Musique chamane – Son binaural-432 Hertz-Chant amérindien
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