Dora D. ha un punto di domanda tatuato a un polso, io ho un pezzo di puzzle…
In questi ultimi mesi, durante i miei viaggi, interiori o fisici, è come se mettessi insieme pezzi di me, come se unissi i puntini, come se raccogliessi pezzi di puzzle che qualcuno ha sparpagliato in luoghi dove sono già stata ma ciecamente…
Davanti a una gioielleria del centro, in Costa Azzurra, mi paralizzo, resto immobile…
Accanto a me una voce maschile, che sa, mi chiede se voglio entrare a vederli da vicino…
Un paio di gemelli hanno catturato la mia attenzione e la mia mente mi riporta indietro nel tempo…
Avrò avuto cinque anni, non di più, quando ogni martedì mattina presto compivo due gesti, due rituali che sono rimasti tali per un tempo che non so quantificare…
Papà il martedì mattina partiva per i suoi viaggi di lavoro, sarebbe poi rientrato o il venerdì sera o il sabato verso l’ora di pranzo.
La sua camera era quella in fondo al corridoio, a sinistra. Accanto, proprio in fondo al corridoio, c’era la mia biblioteca, il luogo dove passavo molte ore seduta a terra a gambe incrociate con un libro… Ho imparato a leggere molto presto grazie a nonno. Ma non divaghiamo…
Entravo nella stanza di mio padre e saltavo sul letto, poi mi sedevo e l’osservavo scegliere con cura ogni cosa. Apriva il secondo cassetto e toglieva una camicia, l’armadio ed estraeva la cravatta. Ne aveva centinaia, erano appese perfettamente una accanto all’altra seguendo le sfumature dei colori. Poi lo vedevo tirare lentamente il primo cassetto del comò, quello a sinistra ed era allora che decideva che gemelli abbinare.
A quel punto, quella bimba si metteva in piedi all’angolo del letto e prima infilava lenta i gemelli nelle fessure dei polsini e poi gli passava la cravatta intorno al collo e gli faceva il nodo. La sequenza l’avevo scelta io la prima volta. Non ne volevo sapere, io sceglievo cosa e come fare…
Dopo pochissimi martedì, era qualcosa che sapevo eseguire alla perfezione, ma lui mi dava comunque istruzioni precise sulla lunghezza della cravatta, sull’intensità con cui stringere il nodo, su come chiudere bene il polso e girare il gemello e credo che se oggi ci fosse un concorso mondiale per il nodo perfetto, io lo vincerei ogni anno! Da allora, io amo cravatte e gemelli.
Mi si inumidiscono gli occhi mentre mi rivedo con i capelli scompigliati e gli occhi ancora stropicciati osservarlo mentre si gira poi verso lo specchio a osservare il “mio lavoro”, girarsi di nuovo e sorridermi mentre si china ad abbracciarmi prima di finire di indossare il suo completo impeccabile e partire…
Saliva in auto verso destinazioni diverse ogni martedì.
A oggi, ho conosciuto pochi uomini al mondo così eleganti!
Mio padre se ne è andato a 77 anni e non ha mai indossato un paio di jeans, tanto meno un paio di sneakers. Non è stato semplice avere davanti agli occhi o sotto lo stesso tetto qualcuno che poteva sfilare nella sua quotidianità per Yves Saint Laurent…
Non l’ho quasi mai visto senza cravatta, nemmeno quando si chiudeva nel suo regno, la cucina, e si metteva ai fornelli per noi o per i nostri amici che si autoinvitavano a pranzo perché eccelleva anche ai fornelli domenicali… Mi sono sempre chiesta, e più volte gli ho confessato di “odiarlo” forse per questo, come facesse a finire di preparare sughi o altro ed essere ancora impeccabile. Io che se solo cucino uno spaghetto al pomodoro finisco per imbrattare non solo il piano cottura, ma anche me stessa e ogni singola molecola appartenente alla cucina!
La domenica usava le camicie “comuni”, quelle con i bottoncini ai polsi e non i gemelli. Il solo lusso che si concedeva tra le mura della cucina e davanti ai fuochi era aprire un bottone sotto al petto e infilarci la cravatta oppure piegare con cura le maniche, perché anche in estate le camicie erano a manica lunga.
Ve ne era un paio, di gemelli, che amavo follemente e che sono “diventati” miei. Ero già grande, 30 anni… Me li regalò un lunedì qualunque, quando andai a pranzo da lui. Ogni lunedì per un po’ di tempo, a mezzogiorno, più o meno, perché non sono mai stata puntuale ai nostri appuntamenti, il mio dito suonava il campanello e lo vedevo affacciarsi da lontano prima di sorridermi e aprimi il cancello, per dirmi poi che avevo fatto tardi… Lo abbracciavo, andavo a lavarmi le mani e poi mi sedevo a tavola con lui che almeno dalle sei di quella mattina, se non addirittura dal giorno prima, si era messo ai fornelli a preparare i miei piatti preferiti che poi finivano spesso anche in contenitori rigorosamente di vetro pronti per essere congelati nel mio freezer di donna single che non amava e non ama cucinare… Sai, papà, avrei così tante cose da raccontarti sulla mia vita di oggi…
Ma torniamo a quei gemelli… Un paio di gemelli rettangolari, in oro giallo dalla grana irregolare, ruvida e liscia a seconda dei punti, che avevano un doppio contorno, quello interno era delineato da una riga in pietra preziosa nera. Non ricordo quale pietra fosse. Mi piacevano moltissimo, erano particolari e conferivano anche alla più semplice delle camicie bianche una classe pazzesca. Li aveva fatti realizzare disegnandoli lui stesso.
Mentre guardo la vetrina penso che ci siamo fatti la guerra molto spesso lui ed io, già allora quando avevo cinque anni. Anche solo perché poi con il tempo mi aveva permesso di scegliere cravatta, colore della camicia e anche i gemelli. A volte sapevo di metterlo alla prova… Vedevo magari il completo blu notte appeso fuori dall’armadio, pronto per essere indossato, e quindi gli dicevo che “doveva” partire con quello gessato grigio… Ha sempre cambiato il suo outfit dicendo a quella bimba che per una volta avrebbe fatto un’eccezione!
Con il tempo ci siamo accorti di adottare questo modo per far sapere l’uno all’altra che eravamo molto simili… Ma nella foresta, in quel preciso territorio, può esserci un solo leone.
Sì, ero simile a lui in molte, moltissime cose!
La mia creatività, per esempio, l’ho presa da lui…
Papà era un grande rompicoglioni in quanto a precisione e perfezione, ma, devo dargliene atto, era una sorta di genio creativo! Era un creativo, un sognatore, uno che disegnava prototipi come se fosse la cosa più naturale o banale del mondo; ha brevettato un sacco di cose. Papà, anche di fronte a un problema pratico, si prendeva cinque minuti e poi dava vita a qualche oggetto…
Lo vedevi scendere nel suo laboratorio sotterraneo, la sua stanza segreta, e accendere macchinari o prendere dalle pareti cacciaviti o altro e dare vita a pezzi di qualcosa che non esisteva… Io ho preso da lui! Lo faccio ancora oggi nella quotidianità! Sembro a volte un maschiaccio che si arrampica al soffitto alla ricerca di cavi o che sfila nastri isolanti su materiali che vengono assemblati per dare vita a cose mai viste prima…
Ero una marmocchia quando da sola scesi per la prima volta in questo labirinto sotterraneo con una noce di cocco, senza dire nulla a nessuno. Me lo ricordo come fosse oggi: la chiusi in una morsa, puntellai i tre suoi punti con un cacciavite e un martello, feci uscire raccogliendo in un piatto il latte e poi con un seghetto la aprii, sentendomi orgogliosa del mio “fare da sola”. Lui come reagì? Si incazzò e molto, mi disse che non potevo fare sempre di testa mia, che era stato pericoloso e azzardato! Era stato chiaro, molte volte, nel dirmi che quegli attrezzi non potevo usarli, soprattutto da sola!
Non dissi nulla, lui non mi parlò per una settimana, dal giorno dopo le due porte di accesso avevano una chiave; io mi sentii ferita, pensai che fosse uno stronzo e pure irriconoscente! Lo avevo osservato in silenzio e ora sapevo cavarmela da sola e invece di dirmi che era orgoglioso di me, si incazzava…
Sì, ero molto simile a lui ogni volta che vedevo le cose a modo mio…
Ricordo che quel giorno mi infilai gli stivali e scesi nel bosco a parlare con il popolo che lo abitava e che ai miei occhi era tutt’altro che invisibile o silenzioso…
Molti anni dopo, decenni, una mattina, mentre mi sdraiavo accanto a lui, sul suo letto di morte, mi confessò che questo mio “non avere paura di nulla” non solo gli aveva sempre ricordato se stesso, ma lo aveva mandato in crisi perché ero la sola e unica persona al mondo che lo sfidava, lo metteva in discussione e alla prova, disse che ero cocciuta quanto lui… Aggiunse che spesso aveva avuto paura che mi mettessi in guai molto seri, che mi facessi del male…
“Avresti dovuto dirmele queste cose, sai?”, fu la sola frase che riuscii a pronunciare quella mattina, mentre chiudevo le mie braccia intorno al suo corpo…
I gemelli che mi regalò non li posseggo più perché un pomeriggio di un inverno qualunque, qualche anno fa, alcune persone hanno deciso di sfondare la finestra a doppi vetri di quella che allora era la mia casa e si sono prese tutti i “miei valori”, che sì lo erano in termini economici per loro, ma che per me erano preziosi di cuore…
Si sono presi alcuni ricordi dei miei “pezzi d’infanzia”, del mio amore per mio padre e mia madre, per i nonni, alcuni pezzi d’amore dei miei viaggi in giro per il mondo…
Avrei voluto guardarli dentro gli occhi mentre infilavano questi oggetti preziosi in una busta di plastica e raccontare loro il vero significato di ogni grammo di quegli ori o pietre preziose…
Quella sera, dopo aver scoperto che i ladri mi avevano portato via tutto, mentre raccoglievo lacrime e quel che avevano lasciato a terra, mi rendevo conto che le prove dell’eleganza di quell’uomo che mi ha generata non potevano più essere messe ai miei polsi…
E oggi, mentre dico in francese a questo gioielliere attempato che mio padre si era fatto realizzare un paio di gemelli molto simili a questi, vedendoli da vicino ne scorgo una piccola differenza, sorrido e mi chiedo se forse, i suoi, quelli originali, non li stia indossando proprio lui, ora, ai polsi di una camicia bianca fatta su misura, ovunque si trovi…
Ecco perché, forse, non sono più nel mio cassetto…
E così, in questo posto che per me è magico e sa d’infanzia e d’amore anche oggi, io resto in attesa di altri pezzi di puzzle della mia esistenza per fare pace con tutto ciò che ho creduto di me stessa o con qualche pezzo del mio passato che ancora non ho compreso…
In cuffia: Olafur Arnalds ft. Arnor Dan – So close
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